C’è un filo conduttore che lega la “riforma delle procedure concorsuali” (primi anni 2000) al “codice della crisi di impresa” (avvio, dopo innumerevoli rinvii, previsto per il 15 luglio c.a.).
I principi ispiratori delle due riforme mirano alla “conservazione” delle aziende in quanto ricchezza e veicolo di produzione di beni e servizi, con riflessi occupazionali e di reddito: in sostanza sociali.
Il concetto “liquidatorio”, dapprima opzione principale, ha lasciato il passo ad una serie di provvedimenti che mirano a tutelare la sopravvivenza dell’asset, lasciando, come ultima ratio, la chiusura dell’attività.
In questo si inserisce l’abolizione dell’espressione “fallimento” che evoca tristi ricordi, ed una gogna, non più in linea con i tempi.
Il Codice della Crisi di Impresa ha continuato a subire ritardi nella partenza: la pandemia e, di recente, i fatti bellici tristemente noti, ne hanno suggerito la postergazione.
In tutto ciò si ha la sensazione che il sistema bancario tardi a modificare ed adeguare, i comportamenti alle indicazioni di cui al “codice”.
Il rapporto diretto “banca-affidato” che, in una situazione di crisi vedeva i due attori contrapporsi in una disputa fatta di più o meno “minacce” (banca) / “resistenze” (azienda), lascia il posto ad un interloquire più articolato che coinvolge più soggetti, con una tempistica che contempla un: Prima (sintomo/segnale), Durante (diagnosi/gestione) Post (terapia/decisione).
La riconosciuta autonomia decisionale della banca viene messa in discussione dalla previsione obbligatoria di ALERT che subentra nella ex-gestione diretta, attraverso organismi preposti.
Il cambiamento culturale, forse, non è stato ancora recepito in pieno dalle banche, con un ritardo che andrebbe colmato in tempi non più ritardati.